25 Settembre 2023 aggiornato alle 12:54
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Interviste

Luciano Quarta. The Crypto Lawyer

Luciano Quarta

Mi piace troppo parlare con Luciano Quarta, noto avvocato tributarista specializzato (e non solo) nel rispondere sul mondo Crypto a chi prova a comprenderne i meccanismi. Che si tratti di probabile o possibile regolamentazione o di norme che possano evitare rischi di truffe a chi si avvicina per la prima volta a questa dimensione, l’avvocato Quarta, in Italia è uno dei più importanti esperti in campo di legislazione “applicabile” (ma non ancora purtroppo) agli asset digitali. Lo ringrazio per il tempo dedicato a questa intervista.

Metaverso, criptovalute, e Web3. Che relazione c’è e in che modo la decentralizzazione caratterizza questi mondi?

Sebbene si tratti di concetti connessi tra loro, è bene mettere in chiaro che Metaverso, criptovalute e Web3 non hanno necessariamente gli stessi ingredienti. Ad esempio, la decentralizzazione è l’ingrediente primario, di criptovalute e Web3, e potremmo dire che essa è nel DNA di entrambi. Al contrario, il Metaverso (o un possibile Metaverso) non necessariamente si fonda sulla decentralizzazione. Per il Metaverso, l’ingrediente primario e caratterizzante si ritrova nella possibilità di realizzare un’esperienza immersiva.

L’esperienza immersiva però non è detto che si procuri attraverso  una tecnologia a registro distribuito, ma essenzialmente da tecnologie software e hardware (come visori, device tattili, grafica 3D, realtà aumentata), e così via per le quali la decentralizzazione non è un elemento essenziale o irrinunziabile. Detto questo, però, nei fatti è praticamente impossibile immaginare un Metaverso svincolato da tecnologie a registro distribuito: pensiamo alla possibilità di accedere a determinati servizi pagando in criptovalute, o all’impiego di smart contracts, o al commercio di NFT, che nel Metaverso trova uno dei suoi luoghi elettivi, e via dicendo.

Quindi, il concetto decentralizzazione è nei fatti, prima ancora che nell’architettura tecnologica, in un modo o nell’altro finisce per essere un pilastro fondamentale di tutti e tre questi mondi. Nel caso del Web3, poi, esso rientra tra i punti chiave di quella specie di manifesto ideologico che mira con forza a superare le logiche del web2. Con il Web3, cioè, si mira a restituire al singolo utente il dominio dei suoi dati. E cioè, di quello che invece ha costituito il “carburante” del Web2: contenuti, dati personali, informazioni su preferenze politiche, sessuali, religiose, abitudini, inclinazioni a determinate condotte, ogni altro genere di dato, messi a disposizione quando volontariamente dai singoli utenti, quando inconsapevolmente, quando persino rubati o prelevati abusivamente, e poi selvaggiamente capitalizzati dalle grandi piattaforme globali (social media, motori di ricerca, marketplace, eccetera).

Questo ha costituito l’ossatura del web e del suo modello di business prevalente, per come ancora oggi lo conosciamo e lo utilizziamo. Però, Houston, abbiamo un problema: siccome la decentralizzazione, come abbiamo detto, è la colonna portante delle criptovalute, essa per il solo fatto che è entrata prepotentemente nel campo monetario e finanziario, viene percepita come una minaccia al mondo della banca e della finanza convenzionale. La prospettiva che si venga a creare un mercato alternativo a quello dei servizi bancari e finanziari tradizionali, centralizzati, un mercato che non abbia bisogno di intermediari, ovviamente spaventa quegli operatori che vivono di intermediazione. E sono soggetti in grado di esercitare enormi pressioni su legislatori e regolatori affinché vengano introdotte regole sempre più restrittive, in grado di ostacolare lo sviluppo di un mercato di servizi fondati su Blockchain.

Il punto, però, è che questo può determinare conseguenze di lungo termine anche su servizi e applicazioni di natura non finanziaria, che però sono anch’essi, o anch’esse, basati su tecnologie a registro distribuito. Per esempio, applicazioni che vengono utilizzate per tracciare asset e processi, la provenienza e la genuinità di prodotti; quelle impiegate nei servizi di notarizzazione, o quelle che permettono il funzionamento di smart contracts per creare meccanismi automatizzati “self enforcing” in molti campi di business, e così via. Le applicazioni con finalità non monetarie e non finanziarie della blockchain sono potenzialmente illimitate, ma tutte quante intanto reggono e possono funzionare, in quanto riescono a nutrirsi di un “carburante” irrinunziabile: quella forma di remunerazione sotto forma di token, generati dai processi di elaborazione della blockchain che vanno a premiare quanti mettono a disposizione la loro potenza di calcolo e quindi, contribuiscono alla incessante produzione di blocchi.

Questi token, infatti, finiscono per essere anche delle specie particolari di criptovalute, sia pure, talvolta, con limitate possibilità di spendibilità. Ora, le paure e le diffidenze verso le criptovalute e verso asset crittografici con finalità monetarie e finanziarie rischiano di strangolare interi settori tecnologici ed economici per i quali le tecnologie a registro distribuito potrebbero essere di enorme utilità. Speriamo che su questo maturi una maggiore consapevolezza di decisori e regolatori.

NFT. Facciamo il punto sui diritti d’autore?

È un po’ come voler fare “brevi cenni sull’universo”: quella dei diritti d’autore e, volendo, della tutela della proprietà intellettuale, è una materia ampia e complessa. Alla sua complessità se ne aggiungono altre inedite quando l’opera artistica o dell’ingegno viaggia a bordo di un NFT. Occorre sempre tenere presente, infatti, che un NFT può costituire, a seconda dei casi, il supporto, il veicolo o la chiave tecnologica che consentono di fruire di un’opera d’arte o dell’espressione della creatività. L’oggetto della tutela della normativa tuttavia, resta, proprio quel prodotto della creatività intellettuale racchiuso in quel guscio tecnologico. In questo senso, nulla è cambiato in termini di tutela di quel contenuto: i principi sono rimasti gli stessi rispetto a quelli che possono riguardare un’opera messa su tela, o un pezzo musicale registrato su un supporto digitale, e così via.

Sono le particolari caratteristiche tecnologiche degli NFT (cioè di quel “guscio” digitale crittografico che racchiude l’opera o la sua chiave di accesso e di fruizione) e un certo tipo di utilizzo che si è cominciato a farne che ha creato un po’ di confusione. Hanno avuto parecchia risonanza i casi relativi agli NFT delle Nike della piattaforma StockX, quello dell’NFT della Birkin e degli NFT di Quentin Tarantino, basati su spezzoni di Pulp Fiction.

Ora, queste vicende, a ben vedere, hanno tutte un tratto comune: partono dalla questione della legittima riproduzione di qualcosa la cui proprietà intellettuale è senza ombra di dubbio oggetto di specifica tutela, e della sua successiva commercializzazione. In un caso è un capo di moda, in un altro caso un’opera cinematografica, in un altro caso è la riproduzione di un marchio, e così via. A queste casistiche le corti, soprattutto statunitensi, hanno dato diverse soluzioni: in un caso (quello di Nike e StockX) hanno affermato che l’NFT in se stesso non viola la normativa a tutela della proprietà intellettuale perché si tratta di una riproduzione solo funzionale all’acquisto di un esemplare fisico del prodotto, cioè, un paio di scarpe “in carne e ossa”, per così dire.

Il caso dell’NFT della MetaBirkin è ancora aperto, e pone sul tappeto una serie di questioni di contrapposta rilevanza: da una parte, la tutela della libertà di espressione artistica anche laddove essa implichi la riproduzione di un bene coperto da tutele; dall’altra parte il fatto che le tutele accordate alla proprietà intellettuale del bene fisico debbano essere estese alla sua riproduzione digitale, se e in quanto essa sia una pedissequa riproduzione e diventi essa stessa un bene (come, ad esempio, un capo indossabile nel Metaverso) potenzialmente suscettibile di sfruttamento commerciale. Infine, la controversia tra Tarantino e la Miramax, è stata definita con un accordo transattivo di cui, com’è abbastanza naturale, non si conoscono i dettagli. Il punto, però, non sta in questo nell’oggetto digitale costituito dal token, in quanto tale.

La questione diventa rilevante nel momento in cui il token diventa il mezzo attraverso il quale viene realizzata la riproduzione che si assume possa intaccare un diritto di proprietà intellettuale. Peraltro, in tutti quei casi in cui un bene a cui l’ordinamento accorda in modo indubitabile la tutela in quanto opera dell’ingegno è, diciamo così, nativo nel o con il token digitale, un NFT, con la sua inespugnabile unicità e tracciabilità, diventa esso stesso un potente strumento di tutela della proprietà intellettuale di quel bene. Perché ne impedisce o ne previene il plagio o la riproduzione abusiva.

Quindi, conclusivamente, c’è da riflettere sulle peculiarità tecnologiche che possono generare casistiche apparentemente inedite, ma, se consideriamo gli istituti giuridici fondamentali e gli aspetti concettuali essenziali, mantenendoci su un piano strettamente giuridico, non credo che il punto si sia mai effettivamente spostato da dov’era prima che venissero ad esistere gli NFT. Se mai quello su cui si dovrebbe lavorare è il fatto che quando una vicenda di fatto o un diritto previsto sulla carta si sposta nella dimensione immateriale del web, che spesso ha legami territoriali e geografici labili e confusi, certe tutele vanno pensate in prospettiva globale.

Tra queste ci sono certamente anche quelle delle proprietà intellettuali. E non dimentichiamo che esistono estese aree geografiche che, già prima e a prescindere dalla nascita del web, da sempre campano delle riproduzioni pirata di ogni tipo di opera, sia essa nel fashion, video o audio, e che certamente non scalpitano perché si appronti un sistema di tutela efficace worldwide.

Il fisco del futuro. Cosa deve aspettarsi chi opera nel Metaverso?

In questo momento, purtroppo, un fisco del futuro ancora non c’è. E soprattutto non si vede ancora all’orizzonte un fisco migliore, né per chi opera nel Metaverso, né per chi opera in ambiti diversi. Come molti sanno, con l’ultima legge finanziaria sono state introdotte nell’ordinamento, per la prima volta, alcune disposizioni che riguardano gli aspetti fiscali sulle criptovalute. E questa è certamente una novità che va apprezzata in quanto tale: pensate solo che fino a ieri si navigava nella più totale incertezza. Il punto è che le lacune lasciate da queste norme scritte forse troppo frettolosamente e, si direbbe, senza prestare troppa attenzione a professionisti e operatori del settore, sono davvero eccessive. Metaverso? Non pervenuto. NFT? Non una parola.

Con la conseguenza, tra l’altro, che chi opera con questo tipo di asset rischia di vederli trattati sul piano fiscale esattamente come una criptovaluta. Qualcosa di cui, cioè, condivide solo una parte della tecnologia, ma risponde a funzioni pratiche, economiche e finanziarie, completamente diverse, almeno, nella maggior parte dei casi.

Detto questo, però, è importante una precisazione: occorre non cadere nella tentazione di pensare al Metaverso o ai Metaversi come si trattasse di universi paralleli, muniti di una qualche sovranità, in cui vigono regole proprie, eventualmente diverse da quelle della realtà fisica (e geografica) a cui apparteniamo come persone. Non è così. Il Metaverso, agli occhi del diritto (e quindi anche del fisco) non è altro che un medium, uno dei tanti, attraverso i quali le persone, fisiche e giuridiche entrano in contatto e possono, se lo vogliono, stabilire delle relazioni.

Da queste relazioni, possono scattare effetti sul piano patrimoniale, ma possono avere rilevanza, anche per altre ragioni, a seconda dei casi, in termini di obblighi, diritti, ovviamente, anche di carattere fiscale. Questo vuol dire che se il mio avatar entra in contatto con il tuo avatar nel Metaverso e il mio avatar compra un NFT dalla tua galleria d’arte virtuale in quel Metaverso, tutto questo non avviene nel Metaverso, ma solo attraverso il Metaverso. Cioè, sono io (persona fisica, munita di capacità giuridica, titolare di diritti ed obblighi) che, attraverso il mio avatar sto comprando quell’NFT da te, e non dal tuo avatar.

Quindi, da una parte ci sono io, che assumo un obbligo giuridico (quello di pagare il prezzo), non il mio avatar. Dall’altra parte ci sei tu, non il tuo avatar, che riceverà un corrispettivo e maturerà un introito e dovrà pagarci le tasse. Ora, chi intende avviare un’attività economica nel Metaverso, secondo me, innanzitutto non dovrebbe farsi troppe illusioni che il legislatore italiano possa decidere di scrivere regole specifiche, anche sul piano fiscale. Poi, per come la vedo, dovrà anche attendersi qualche problema legato alle particolarità e alla conseguenti difficoltà interpretative che gli uffici fiscali potranno incontrare per effetto delle particolarità tecnologiche dell’ambiente costituito dal Metaverso.

Per esempio, c’è il tema dell’identità effettiva di chi è il “proprietario” di un avatar, e quindi di chi c’è veramente a gestire una determinata attività economica. Su questo stesso tema, poi, si innestano gli aspetti della normativa antiriciclaggio: se chi eroga i servizi attraverso il Metaverso è un soggetto che è tenuto all’applicazione della normativa antiriciclaggio, in che modo potrà eseguire una adeguata verifica della clientela? Poi c’è il problema della localizzazione geografica effettiva dell’attività, o del soggetto che la svolge, da cui discende il tema del luogo in cui gli introiti vanno tassati. E così via, su una quantità di questioni alcune delle quali, in realtà, si erano già poste e sono state affrontate con la nascita e l’affermazione del commercio online.

Come cambierà il sistema legale e le leggi che saranno indispensabili per il Metaverso?

Questa è una domanda da un milione di dollari. Prima di tutto, è ragionevole pensare che il sistema legale in Italia e nelle maggiori giurisdizioni del mondo, potrà essere spinto verso un cambiamento solo nella misura in cui i legislatori percepiranno che il Metaverso abbia assunto, o possa assumere, una estrema rilevanza socio – economica. In mancanza di una simile percezione, personalmente dubito che i legislatori, e specialmente il legislatore italiano, possano avvertire l’impellenza di scrivere norme ad hoc. Detto questo, non c’è dubbio che il particolare modo di intrattenere delle relazioni tra soggetti giuridici nel Metaverso potrebbe consigliare l’adozione di norme dedicate, che possano prevenire l’insorgenza di equivoci e di problemi nei molti ambiti disciplinari. Come si è anticipato, per esempio è estremamente rilevante il tema dell’identità effettiva del soggetto che opera dietro un avatar.

Ci sono veramente io? O mio figlio minorenne che, proprio in quanto minorenne, se stipula un contratto esso rischia di essere invalido? E se io “piloto” il mio avatar da Milano e tu sei un cittadino, diciamo cinese e piloti il tuo avatar da Pechino, nel momento in cui io e te stipuliamo un accordo commerciale, si applicheranno le regole del diritto commerciale italiano o del diritto cinese? In caso di problemi, a quale giudice mi rivolgerò? E così via. Ad ogni modo, finchè si tratta di questioni di carattere civilistico (quindi, essenzialmente, quando ci sono di mezzo essenzialmente obbligazioni, contratti e diritti patrimoniali) la gran parte delle questioni può essere gestita con opportuni accordi contrattuali, attraverso i quali può essere affrontata preventivamente ogni questione e si possono deferire le controversie a organismi arbitrali nazionali ed internazionali.

Il problema sorge quando le questioni hanno una rilevanza di tipo penale, ad esempio, in caso di frodi, o in altri ambiti legali in cui la volontà negoziale delle parti non può sopperire alla mancanza di norme espressamente adottate. Ad esempio, in ambito fiscale. Certo, il Paese il cui ordinamento giuridico si sarà dotato per primo di regole chiare, che rendano facile la vita degli operatori economici che intendono avviare un’attività imprenditoriale attraverso il Metaverso, ovviamente sarà il Paese che si aggiudicherà un vantaggio di posizione importante in un settore di business che oggi forse è ancora ai primordi ma che, a seconda della prossima evoluzione tecnologica, ha davanti a sé sconfinate prospettive di sviluppo. Quei Paesi che, invece, non avranno questa prontezza è ragionevole pensare che resteranno al palo e perderanno il treno.

Aprire una società nel Metaverso. Possibile? Dubbi, norme e indicazioni pratiche di quello che verrà.

Allo stato è impossibile aprire una società nel Metaverso, sia sul piano giuridico che sul piano concettuale. È possibile invece aprire nella realtà fisica una società che operi nel Metaverso, entrando in contatto attraverso questo medium con potenziali clienti, promuovendo e commercializzando servizi o beni attraverso una piattaforma immersivo-virtuale. Domani, ad un certo punto, si potrebbe consentire la costituzione di società attraverso il Metaverso, come si è arrivati a creare società le cui quote rappresentative sono incorporate in token, e quindi, attraverso la blockchain, e tutto questo nel pieno rispetto della normativa civilistica e societaria vigente. Questo, comunque, dal mio punto di vista potrebbe accadere solo quando la tecnologia sarà sviluppata in modo tale da consentire una rigorosa verifica dell’identità del detentore di un avatar e questa modalità tecnologica troverà un formale riconoscimento giuridico nella legge.

Cosa la Blockchain può fare per l’economia italiana.

La blockchain può fare un mucchio di cose per l’economia italiana. Dimentichiamo per un attimo l’uso della blockchain per finalità strettamente monetarie e finanziarie. Ormai è un dato noto che sono potenzialmente infinite queste applicazioni alternative, dalla notarizzazione al tracciamento di processi, in cui la blockchain, nonostante l’onerosità e le inefficienze sul piano energetico, può essere utilmente impiegata. Soprattutto, uno dei campi di maggior interesse è quello degli smart contracts, che consentono l’automatizzazione di effetti anche di carattere legale: l’Italia è uno dei primi Paesi ad aver inserito nel 2018 una definizione giuridica di smart contracts.

Ora, se pensiamo, per esempio, alla capacità degli smart contracts di automatizzare i processi, in modo completamente pubblico, la prima cosa che può venire in mente è che l’impiego di una tecnologia del genere potrebbe rivoluzionare la burocrazia, abbattere drasticamente le tempistiche di ultimazione dei procedimenti amministrativi, togliere potere a quegli apparati che possono trarne vantaggio tenendo per il collo cittadini ed utenti, rendendo oggettiva l’azione delle pubbliche amministrazioni, e così via. Se pensiamo alla possibilità della blockchain di tracciare le filiere produttive e la provenienza delle materie prime, proviamo a immaginare quello che si può fare in uno dei settori cruciali della produzione italiana, come l’agroalimentare.

Un volano preziosissimo. Se poi pensiamo agli NFT e alle inedite capacità di marketing e di promozione offerte da questi asset, in grado di raggiungere nuovi settori di mercato, proviamo a immaginare cosa possa voler dire per settori produttivi strategici per l’economia italiana come la moda, il design e certi beni di lusso. E in tutto questo si innestano professionalità e competenze ad alto valore aggiunto: figure di elevato profilo, anche molto giovani, che oggi fanno fatica a trovare un collocamento nel mercato del lavoro tradizionale, in questi ambiti specifici possono trovare grandi riscontri e gratificazioni.

Ora, perché mai, per la sola pigrizia di non voler comprendere e quindi legiferare su questi fenomeni nuovi, si dovrebbe lasciare l’opportunità di affermare tecnologie, professionalità e creatività a operatori esteri e quei paesi che invece sono reattivi e in grado di creare rapidamente un framework normativo chiaro e agevole da gestire? E potremmo andare avanti ancora a lungo. E che tutto questo si trasformi in un’opportunità di sviluppo economico o rimanga seppellita sotto una valanga di cavilli formali, fiscali e burocratici, è nelle mani solo da chi ha il potere di scrivere le leggi.

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